fbpx

>

Un suono vicino
e lontano

Ritornare a casa con il cuore senza smettere di guardare avanti

Archivio

BORJ EL CHMALI
LIBANO

Nei paesi occidentali gli anni Ottanta vengono ricordati, tra le altre cose, per la nascita dei primi eventi musicali di solidarietà, rivolti prima ai paesi africani e poi progressivamente a varie altre aree del mondo. Nel 1985, infatti, Bob Geldof e Midge Ure diedero vita al Live Aid, un concerto rock che aveva lo scopo di ricavare fondi per alleviare la carestia in Etiopia. Di lì in poi, saranno sempre di più le iniziative di questo genere, sia su larga che su piccola scala.

In Libano, invece, lo stesso decennio segna la fine di un’illusione, di una speranza già andata in frantumi nella seconda metà degli anni Settanta: quella di un paese diverso, una specie di isola di pace in un contesto mediorientale surriscaldato da almeno trent’anni di conflitti quasi ininterrotti. Il risveglio, per quella che veniva chiamata “la Svizzera del Medio Oriente”, era già arrivato con l’inizio della guerra civile del 1975, ma saranno gli anni Ottanta a segnare in modo indelebile non solo la storia, ma soprattutto la società libanese, che uscirà dal conflitto ufficialmente soltanto nel 1990, quindici anni dopo l’inizio.

Mentre si conosce abbastanza bene la storia del massacro avvenuto nel 1982, a Beirut, nel quartiere di Sabra e nel campo profughi palestinese di Shatila, molto meno si è raccontato dei fatti, ma soprattutto delle ferite di quella lunga guerra, nel resto del Libano.

Man mano che ci si avvicina al confine con Israele, la presenza militare si fa più tangibile, e l’aumento dei posti di blocco è notevole. Arrivati a Tiro, Ṣūr in arabo, una tra le più importanti città mediorientali dell’antichità e oggi patrimonio dell’Unesco, si riconoscono in modo sempre più netto i segni della sua storia recente.

Dopo la proclamazione dello stato di Israele nel 1948, infatti, numerosi rifugiati palestinesi trovarono una sistemazione nei campi profughi allestiti alla periferia della città e nei pressi delle rovine romane.
Proprio in questo periodo nasce il campo temporaneo di Bourj al Shamali, che come molti di questi luoghi diventerà di fatto permanente nel giro di pochi anni e avrà una popolazione in costante crescita, fino ad avere oggi oltre cinque volte gli abitanti previsti nel momento della sua costruzione.

Sono molti i momenti chiave in questa storia di discesa verso una situazione sempre più insostenibile: il distretto di Tiro fu pesantemente colpito dalla guerra civile libanese iniziata nel 1975 e fu poi sottoposto a una lunga occupazione israeliana, durante la quale emerse in modo sempre più forte, dopo la rivoluzione khomeinista in Iran del 1979, anche la resistenza armata del gruppo sciita Hezbollah, creando proprio qui il fronte principale del conflitto. Quando, dopo il definitivo ritiro israeliano dal sud del Libano nel maggio del 2000, si pensava che la storia potesse cambiare e procedere verso un ritorno alla normalità, arrivò il conflitto del 2006, ancora una volta con Israele, e i pesanti bombardamenti su Tiro e sulle aree circostanti hanno lasciarono nuove ferite sulla pelle della popolazione.

In un contesto del genere, pensare alla musica sembra impossibile.
Non si sa esattamente quando la cornamusa abbia fatto la sua comparsa tra i palestinesi del Libano. Secondo Hassan Saied, insegnante di questo strumento nel campo di Bourj al Shamali, è una questione di tradizione.

In effetti le testimonianze storiche dicono che uno strumento, simile in realtà più a una zampogna che a una cornamusa, fosse parte della tradizione pastorale e contadina palestinese, ma da questo punto in poi le voci, anche un po’ contraddittorie, rendono difficile capire qualcosa di più.
Secondo Mahmoud Al-Joumaa, detto Abu Wassim, coordinatore della Ong Beit Atfal Assumoud per l’area sud del Libano, questo antico strumento si suonava in Palestina “da sempre”, ma venne portato via durante le Crociate, poi caduto in disuso in Medio Oriente e infine reintrodotto con il Mandato britannico della Palestina a partire dal 1920. Che questa dinamica di uscita, abbandono e rientro sia precisa, o che sia solamente utile per poter mantenere una memoria storica semplice da raccontare e spiegare, rimane il fatto che in un qualche momento dopo la fine dell’occupazione israeliana degli anni Novanta, alcune famiglie libanesi donarono alcune vecchie cornamuse proprio ad Abu Wassim.

«Inizialmente – racconta Olga Ambrosanio, presidente e fondatrice dell’associazione italiana Ulaia, che coordina i progetti musicali a Bourj al Shamali – chi suonava si costruiva le ance, che servono per incanalare il suono dentro lo strumento, con le cannucce delle bibite, e tante volte ci si faceva anche male, ma si continuava ad adattare questi vecchi strumenti».

Dopo questa fase pionieristica, la storia delle cornamuse nel campo di Bourj al Shamali visse una fase di accelerazione nel 2007, quando i primi musicisti vennero invitati in Francia, al Festival Interceltico di Lorient, dove ricevettero in dono dieci cornamuse, ben diverse per qualità e per stato di conservazione rispetto alle precedenti.
Come spesso succede, però, è un incrocio quasi casuale a segnare una svolta: è il 2008 quando Olga Ambrosanio, presidente e fondatrice dell’associazione Ulaia Arte Sud, entra in contatto con Bourj al Shamali.

La passione per la cornamusa non ha più smesso di crescere: da quelle quindici persone che meno di dieci anni fa componevano il primo nucleo è partita una dinamica che ormai coinvolge almeno quaranta bambini e ragazzi. Chi era appena un ragazzo dieci anni fa oggi è un trentenne che insegna ai bambini più piccoli, e questa rinnovata tradizione coinvolge anche un gran numero di bambine, ragazze e donne.
Al di là della tradizione, reale o presunta, della cornamusa in Palestina, la verità è che si tramanda da persona a persona, da ragazzo a ragazzo, non solo a Bourj al Shamali ma anche in altri campi del Libano, come a Beddawi, nei pressi della città di Tripoli.
Tutto questo avviene nonostante la tradizione pastorale palestinese sia ormai poco più di un ricordo: anche se gli abitanti di Bourj al Shamali si ritengono persone di tradizione agricola, nel campo non ci sono aree verdi, e le coltivazioni nelle zone circostanti al campo vedono i residenti lavorare come stagionali per proprietari che non appartengono alla comunità.
Un motivo va forse cercato nel desiderio di tornare un giorno in Palestina: piantare alberi o avviare delle coltivazioni, ovvero mettere delle vere radici nel terreno, viene vissuto un po’ come accettare la permanenza nel campo.

Se da un lato le radici fisiche vengono vissute come una costrizione, dall’altra anche quelle culturali vanno costantemente rinnovate e rafforzate: anche per questo i progetti musicali non si limitano alla cornamusa, ma da alcuni anni hanno visto crescere, grazie alla partecipazione della Tavola Valdese, anche un colorato universo di strumenti differenti, che vanno a comporre la Banda Senza Frontiere.

Camminando tra i corridoi del centro didattico di Bourj al Shamali si vedono sassofoni, clarinetti, flauti, trombe e tromboni, oppure percussioni, e sempre più bambini e bambine, ragazzi e ragazze, si avvicinano a questi strumenti con il sogno di creare una banda autonoma, da affiancare alla Sumoud Guirab, l’orchestra di cornamuse che ormai rappresenta uno dei gruppi di musica tradizionale più conosciuti e apprezzati del Libano.

Per le persone di Bourj al Shamali, la musica non è soltanto svago, ma è uno strumento importante, un modo per ripercorrere la propria storia e mantenere in vita le proprie tradizioni senza rimanere ancorati al passato.

Accanto alla produzione musicale, da sempre i progetti finanziati dalla Tavola Valdese prevedono azioni in un altro ambito, quello della musicoterapia.
Sviluppato all’interno di Banda senza Frontiere e inizialmente sostenuto dalla Giunta regionale pugliese, ha permesso la formazione di due psicologi per ogni campo profughi, e nel 2011 sono cominciati i trattamenti ai bambini.
Nel 2015, anche sempre nell’obiettivo di renderli autonomi fino in fondo, nel progetto di Ulaia Arte Sud insieme alla Tavola Valdese è stata inserita la possibilità di portare uno psicologo palestinese per la formazione da musicoterapeuta alla Cittadella di Assisi. Sarà un corso quadriennale, che consentirà alle organizzazioni palestinesi di avere un formatore palestinese, rendendo sempre più indipendente l’azione di formazione.

Osservando le vie dei campi palestinesi, l’intreccio di cavi che passano sopra le teste, i muri scrostati e le abitazioni senza un tetto, la formazione musicale potrebbe sembrare qualcosa di inutile, un vezzo di qualche associazione occidentale desiderosa di portare un po’ di sé in quei luoghi.

Eppure non è così: ogni persona incontrata, ogni insegnante e ogni ragazzo o ragazza che racconta la propria esperienza parla di un’attività decisiva per la propria formazione.
La musica, infatti, è in grado come poche altre cose di dare alle persone una forma mentale, delle regole apprese però in modo divertente, un insegnamento che servirà per tutta la vita, specialmente a persone che non hanno spazi e che spesso soffrono di iperdinamicità dovuta alla frustrazione di non poter impiegare in alcun modo le proprie energie.

Il percorso può sembrare noioso, e l’abbandono è sempre dietro l’angolo, ma per portare avanti la formazione musicale è necessario avere un metodo.

Quando si ascoltano le storie di Bourj al Shamali si sente spesso ripetere quanto sia importante che le conoscenze, le competenze e la passione vengano tramandate, e questo diventa possibile quando alla volontà si affianca la possibilità.

All’interno del progetto, infatti, è prevista anche per gli insegnanti la possibilità di seguire dei corsi, in modo da migliorare le proprie competenze sia come musicisti, sia come insegnanti.

Uno dei punti di forza del progetto portato avanti da Ulaia Arte Sud insieme alla Tavola Valdese è la capacità di coinvolgere persone che permettono ai ragazzi di non interrompere mai lo studio.
Se da un lato gli insegnanti locali ricevono un rimborso, dall’altro ci sono i volontari: ogni anno dall’Italia e non solo arrivano numerosi musicisti e insegnanti, in grado di portare alle loro controparti locali le competenze acquisite magari in anni di Conservatorio, o con anni di studi su un metodo che possa essere condiviso.

Questo approccio, questa capacità di coinvolgere persone che provengono da mondi differenti e farle convergere qui, a Bourj al Shamali, garantisce un ulteriore risultato, quello di prendere coscienza della situazione e di diventare a propria volta dei testimoni di quanto visto e vissuto.

Oltre che formativa, un’attività apparentemente universale come la musica è anche politica.
All’interno del campo, ma in generale nella società palestinese, non manca infatti chi si schieri contro la musica.

«Quando abbiamo cominciato nel 2011 – racconta Olga Ambrosanio – il vicino di casa ci metteva a tutto volume il Corano. Era un segno evidente per dire che non gradiva i nostri rumori. Li chiamo così perché è normale, da una tromba o un trombone dato in mano a un bambino all’inizio viene fuori solo rumore».

Un episodio come questo non è isolato, ed è il segno di un contrasto tra due mondi: quello di chi sta cambiando e quello di chi rifiuta questo cambiamento.

I movimenti radicali a carattere religioso e marcatamente tradizionalista sono minoritari nel mondo palestinese, ma la loro influenza viene spesso percepita come crescente. Se da un lato questo può essere ricondotto soprattutto alle influenze internazionali e all’onda del conflitto siriano, in corso ormai da cinque anni e sempre più radicalizzato su alcuni fronti, dall’altro si fonda su una presenza che esiste in ogni società, quella dei «fanatici», come li definisce Abu Assim, il coordinatore del campo di Bourj al Shamali.

Percepita o reale, questa presenza viene contrastata cercando di rinnovare ogni giorno la propria tradizione, per evitare che diventi un feticcio del passato, un oggetto da mettere su un piedistallo senza la possibilità di mantenerlo vivo nella quotidianità.

La musica, il canto, vengono portati nelle strade per ricordare a tutti che di fronte a progetti radicali che guardano al passato è possibile opporne altri, che guardano al futuro e ai propri sogni.

Usciti dal campo di Bourj al Shamali non ci sono molte direzioni nelle quali muoversi: si può andare a nord, verso la capitale libanese Beirut per cercare fortuna, sapendo bene di non poter accedere a molte professioni e a molte occasioni di vita, oppure si può andare verso ovest, con un percorso lungo e spesso mortale che conduce verso l’Europa e verso il sogno di una vita diversa, mentre è impossibile andare verso est, dove la guerra in Siria preme e porta in Libano una enorme quantità di persone in fuga, e che magari si ritrovano, dopo quasi settant’anni dalla fuga dalla Palestina, a rinnovare la propria condizione di profughi.

GUARDA ALTRI REPORTAGE IN ARCHIVIO

Un calcio all’isolamento.

Inseguire un pallone e riscoprire il gioco tra le vie di Shatila

Passo dopo passo.

Dal supporto alle vittime di mine fino a una nuova quotidianità ad Amman insieme a Life Line, You Able e la Campagna italiana contro le mine

Emergenza Siria.

Il programma di aiuti dell’Otto per Mille valdese e metodista per la popolazione siriana colpita dal conflitto

Cambiare la società lavorando la terra.

La storia della formazione primaria nei campi profughi palestinesi a Beirut, in Libano

Vedi
anche