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Con le lenzuola
pulite

La gestione di un ospedale in una delle zone più remote dell’Etiopia

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ETIOPIA

«All’ospedale di Mekellé era stata portata una ragazza che aveva tentato il suicidio, si era gettata della benzina addosso e si era data fuoco. L’hanno spenta subito ed era lucida quando è arrivata in ospedale, sebbene in gravi condizioni. L’abbiamo tenuta in una stanza particolare trasformata in camera di rianimazione; eravamo riusciti a farla parlare, riusciva a esprimere i suoi sentimenti e emozioni ma era in una condizione drammatica. Per un momento sembrava migliorata e che parte delle ulcere si fossero riassorbite. Aveva ustioni sui tre quarti del corpo; ustioni di terzo grado, non c’era più l’epidermide, solo il muscolo. La medicavamo e le cambiavamo le lenzuola più volte al giorno.

Una domenica all’improvviso ci hanno chiamato perché era troppo grave e stava morendo, siamo corsi ma purtroppo non c’è stato niente da fare. Abbiamo provato a rianimarla, ma la ragazza è morta davanti a noi, i suoi genitori e i suoi familiari. La dottoressa che l’aveva curata piangeva, si era affezionata a lei e a un certo punto avevamo anche pensato di poterla salvare.

Sono stati i familiari della ragazza a incoraggiarci, rincuorandoci sul fatto che avevamo fatto tutto il possibile e che di più non si poteva. Soprattutto ci hanno ringraziato perché la ragazza, almeno, era morta in un letto con le lenzuola pulite».

Questa è una delle tante storie che chi lavora in un ospedale prima o poi deve affrontare; una delle innumerevoli che il professor Aldo Morrone, dermatologo e direttore dell’Iismas, ci ha raccontato.

La ragazza è morta. Non c’è stato più niente da fare, le cure non sono state sufficienti. Nel nostro mondo questa sarebbe stata quasi esclusivamente la storia di un fallimento, ma la prospettiva cambia ad altre latitudini. Da noi la morte non è quasi nominabile tanto si tenta di evitarla a qualunque costo; come se i medici fossero invincibili riteniamo il decesso un incidente durante la cura, non un’eventualità da tenere in considerazione nel caso si stia affrontando una malattia rischiosa.

L’avere allontanato l’asticella di rischio dalle nostre vite spesso non ci fa apprezzare alcuni privilegi che diamo ormai per scontati e che nella storia della ragazza di Mekellé compaiono discreti ma prepotenti nella loro fondamentale presenza. La ragazza è stata portata in un ospedale, e questo vuol dire aver avuto un luogo preciso verso cui dirigersi in caso di necessità. La ragazza è stata curata da medici che sapevano come aiutarla o almeno come alleviare la sua sofferenza. La ragazza non ce l’ha fatta ma non è morta poveramente; non era abbandonata e lasciata alla miseria della sua condizione. La morte l’ha colta in un letto pulito.

Un fatto che non è per niente scontato in un luogo in cui le lenzuola non esistono, le case sono di fango e vengono condivise con gli animali scorrazzanti del cortile. Considerando di non poter evitare la morte, come preferiremmo affrontarla? Probabilmente almeno senza dolore.

E immaginando di essere malati, quanto vale il conforto di avere qualcuno a fianco che sa cosa sta accadendo?

Avere un posto dove andare quando si ha bisogno di cure non dovrebbe essere un privilegio, neppure in un paese molto povero come l’Etiopia.

QUANDO SI PARLA DI ETIOPIA…

Oggi l’Etiopia ha 86 milioni di abitanti, è il secondo Paese più popoloso dell’Africa dopo la Nigeria e il decimo per estensione, ma è solo la nona economia del Continente. Vive da oltre vent’anni un periodo di pace ed è passata da Paese più povero del mondo all’inizio degli anni ’90, (dopo la lunga e sanguinosa guerra civile contro la dittatura militare) a economia in via di sviluppo con una crescita media del 7% l’anno. Da qualche tempo le relazioni commerciali, istituzionali e cooperative con l’Italia si sono sviluppate e incrementate. Nel Paese operano tra le altre, aziende italiane come Italferr, Salini-Impregilo, Geox, gruppo Danieli.

La storia etiope è affascinante, soprattutto se si usa il passato come lente per guardare il presente. Da vent’anni è una repubblica federale parlamentare divisa in nove stati regionali etnicamente e politicamente autonomi.

Qui sono stati trovati i resti di Lucy, l’australopiteco di tre milioni e mezzo di anni fa considerato il progenitore della specie sapiens sapiens. Le radici più recenti della civiltà etiopica risalgono a oltre duemila anni prima di Cristo.

Per gli etiopi che incontriamo un ingrediente della storia collettiva è l’orgoglio, in relazione al passato coloniale. La parola che usano è “occupazione” al posto di “colonia”. Una differenza non solo semantica, che rimanda direttamente alla brutale invasione dell’Italia tra il 1936 e il 1941. Ma riporta anche alla vittoria etiope, ad Adua nel 1896, sempre contro il Regno d’Italia.

È stato uno dei pochi paesi africani a mantenere la propria sovranità e indipendenza, sotto il regno del negus Menelik II, e a contribuire alla fondazione della Società delle Nazioni e delle Nazioni Unite. È una nazione multilingue con circa 80 gruppi etnolinguistici, tra i quali i più grandi sono gli Oromo, gli Amara, i Tigrini e i Somali. Da vent’anni la politica di integrazione dei diversi gruppi etnici e linguistici punta sugli adolescenti che vengono mandati a studiare e vivere in altri stati del Paese in modo da mescolare i vari gruppi etnici storici.

La storia recente riporta a nomi come Haile Selassie, ucciso e spodestato da un colpo di stato militare guidato dal generale Mengistu; a sigle come Derg, la giunta militare al potere fino al 1991, dall’Eprdf, l’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front che dal 1995, dopo aver sconfitto i militari, governa il Paese.

Nonostante la rapida crescita degli ultimi anni, il Pil pro capite etiope è ancora tra i più bassi al mondo e la ricchezza è mal distribuita. L’economia ha diversi problemi strutturali e la produttività agricola è ancora bassa. Da quando è al potere il partito di governo ha rivolto molti investimenti nell’istruzione e nella sanità.

Gebre Ab Barnabas, ex ministro degli affari federali ed ex ministro della Sanità, è stato uno dei protagonisti della storia etiope degli ultimi trent’anni e ci racconta la realtà del suo Paese oggi e della sua storia recente.

Le associazioni e le Ong presenti nel Tigray e in Etiopia sono strutture ben organizzate, con sede ad Addis Abeba e progetti in tutto il Paese. La politica del governo etiopico si sta però indirizzando nel chiedere alle associazioni di operare lontano dal capoluogo. Nelle zone più remote infatti non sono molti a portare avanti dei progetti perché si preferisce lavorare in zone più servite, dove ci sono acqua e luce. Sicuramente operare nelle aree remote è più costoso e duro ed è difficile trovare personale che stia in un posto dove non c’è niente, spesso non si sa cosa cucinare e per molti mesi non piove. Ma è proprio lì che l’Iismas lavora.

L’IISMAS

L’Iismas, Istituto Internazionale Scienze Mediche Antropologiche e Sociali, è un’associazione no profit che nasce nel 2002 grazie all’interesse per le vicende del mondo da parte di una serie di professionisti. Il fondatore è Aldo Morrone, dermatologo, esperto di malattie tropicali e viaggiatore, che ha raccolto intorno a sé persone provenienti da molte altre professioni e non cooperanti di mestiere. Così è nata quest’associazione che opera in varie parti del mondo, come l’India, il Sud America o l’estremo oriente, ma che ha l’Africa come focus principale.

Ricorda il prof. Morrone: «Abbiamo dedicato gli ultimi 30 anni a questo Paese. Il nostro tempo, quello delle nostre famiglie, di tantissime collaboratori e collaboratrici senza i quali non si sarebbe potuto fare nulla. Abbiamo fatto tanto in molte parti di quello che è definito il sud del mondo, anche senza la continuità che abbiamo avuto in Africa».

Stare in Etiopia da 30 anni significa aver seguito il Paese anche nelle sue vicende politiche, durante gli anni difficili della guerra e del disastro sociale e sanitario; all’Iismas si deve l’attenzione verso le questioni mediche e cliniche, in particolare verso la dermatologia che in Etiopia non era conosciuta. Peraltro in quel luogo questa specializzazione non è una questione puramente estetica, come molto spesso è considerata in Europa: le malattie della pelle possono essere letali. Il professor Morrone, con fondi propri, l’ha progressivamente inserita nel Paese e ora nell’ospedale della capitale c’è un reparto di dermatologia, ci sono medici etiopici specializzati e la popolazione ha accesso alle cure in un settore che era praticamente sconosciuto.

L’Iismas collabora a stretto contatto con le istituzioni locali, come testimonia Hagos Godefay, attuale ministro della salute in Tigray: «La collaborazione con l’Italia e l’Iismas è cominciata prima che ci fosse l’ospedale; sono molti anni che il professor Morrone lavora in Etiopia e la nostra collaborazione migliora costantemente. Possiamo considerarci amici, lavoriamo e discutiamo serenamente e sono sicuro che tutti si sentono a casa in Tigray. Continuiamo a confrontarci molto per continuare a migliorare quello che abbiamo pianificato e cominciato a costruire, compreso unire le varie università della regione (Adigrat, Mekelle e Axum) in modo da avere nuovi scienziati, dottori e ricercatori e continuare a formarli perché possano sostenere il nostro sistema sanitario, migliorarlo e contemporaneamente migliorare la società. La collaborazione dunque è esemplare, lavoro con moltissime altre organizzazioni e conosco molte persone, ma il rapporto tra l’Iismas e il ministero della salute del Tigray è completo e integro».

Le difficoltà del Paese sono molte, per esempio quelle che riguardano l’approvvigionamento di elettricità: un problema particolarmente sentito per un ospedale che deve usare apparecchiature che necessitano di una certa potenza. Anche avere disponibilità costante di acqua è un problema ma le comunità sono molto attive e questo è un segnale di grande speranza.

Grande speranza arriva anche dai medici e specialisti che decidono di rispondere alla chiamata dell’Iismas per condividere l’esperienza del lavoro nei paesi più poveri. Professionisti che dimostrano non solo disponibilità ma anche umiltà, perché non si va in Africa per insegnare, ma soprattutto per imparare, ascoltare, capire come si diffondono certe malattie per poi studiarle e insegnarle nelle università italiane ed europee nell’ottica di una condivisione e solidarietà scientifica e clinica, ma soprattutto etica ed umana.

L’obiettivo generale del progetto portato avanti dall’Iismas è contribuire al miglioramento delle condizioni di salute in Etiopia, in particolare della popolazione della regione del Tigray e dei rifugiati eritrei e somali accolti presso i campi profughi nella zona di Sheraro, attraverso la formazione, la diagnosi, la cura, la prevenzione delle malattie infettivo-diffusive e la promozione della salute materno infantile. Obiettivo supportato dall’ 8×1000 della Chiesa valdese.

L’ASSISTENZA SANITARIA NEL TIGRAY

«Quando ero Ministro della Sanità in Tigray ho costruito 160 Healt Center e diversi ospedali. Abbiamo costruito l’ospedale di Axum che ora è il secondo più grande del Tigray. Così come l’ospedale di Aider, che ho riaperto. Ho fatto parecchie cose in ambito sanitario per il mio Stato e continuo a dare idee e a tessere relazioni come quella con il professor Morrone e l’Iismas che ci possono aiutare a migliorare la condizione di salute del nostro popolo. Credo che non abbiamo ancora fatto abbastanza per la salute dei bambini e delle madri», ricorda Gerbe Ab Barnabas.

L’Etiopia tiene a mantenere pubblica la sua sanità. La sanità privata è prevista ma il governo non l’appoggia. «Stanno nascendo cliniche private ma io credo che la via principale da seguire e da sostenere sia la sanità pubblica degli Healt Center e degli ospedali», sostiene Barnabas.

L’accesso alle cure in Etiopia è in evoluzione. Si paga un ticket che dipende dalle condizioni della famiglia. C’è anche la possibilità di avere delle esenzioni: una famiglia molto povera può recarsi dal capovillaggio che può scrivere un’esenzione dal ticket con cui la persona malata può recarsi in ospedale. Ma è una procedura un po’ farraginosa e non tutti la utilizzano. Il quadro completo ci viene descritto dall’attuale Ministro della Sanità del Tigray Hagos Godefay e Carmen Bertolazzi, sociologa dell’Iismas.

Attraverso queste politiche l’Etiopia è uno dei Paesi in via di sviluppo che ha raggiunto quasi tutti gli obiettivi di sviluppo del millennio. Soltanto sul punto relativo all’eliminazione della mortalità infantile non è ancora stata raggiunta la soglia del 75%.

SHERARO

Sheraro è un’area remota. La prima cosa che puoi notare è il caldo, presente fin dalle prime ore del mattino. In strada il gioco dei bambini sembra non interrompersi mai e le varie attività familiari e lavorative si svolgono con calma e senza affanno. Seguendo le poche strade della cittadina che si incrociano ortogonalmente si trova facilmente il limite dell’area abitata in veloce mutamento: i cantieri si susseguono e le strade, fino a poco tempo fa tutte sterrate, stanno pian piano diventando carreggiate lastricate di pietra. In ogni parte del paese ci si trovi permane una sensazione di costante trasformazione, mentre tutt’intorno c’è il deserto.

Il paese fa parte di un distretto che comprende otto villaggi, ognuno con il suo Health Center (ambulatori di primo soccorso), di cui quello di Sheraro è il principale.

La scelta del luogo in cui sarebbe stato costruito l’ospedale ci viene raccontata da chi ha conosciuto Mario Maiani, filantropo e veterinario toscano che ha impiegato la sua fortuna per costruire ospedali nelle zone più povere del mondo; in Tigray ha finanziato la costruzione del reparto materno infantile ad Adigrat e l’ospedale di Sheraro gestito dall’Iismas. Durante l’inaugurazione del reparto ad Adigrat fu chiesto all’allora ministro della salute del Tigray, Gebre Ab Barnabas, di dire durante la conferenza stampa quale fosse un posto davvero lontano e remoto dove si sarebbe costruito il nuovo ospedale finanziato da Maiani. Preso alla sprovvista lui disse Sheraro.

Da quando è stato aperto l’ospedale la città è cambiata molto, anche se rimane un’area remota. È cresciuta soprattutto la consapevolezza degli abitanti sulla possibilità di accesso alle cure: ora a Sheraro arrivano persone anche da molti chilometri di distanza e il centro abitato si sta ampliando velocemente. L’ospedale Mario Maiani (intitolato al benefattore scomparso nel 2012, pochi mesi prima dell’inaugurazione) è quello di più recente costruzione nel Tigray ma è uno dei più importanti perché situato in una delle zone a più alto rischio di malaria e leishmaniosi. Si trova vicino un campo di rifugiati eritrei, quindi oltre alla comunità intorno al villaggio, assicura assistenza ai migranti in caso di emergenza.

La sua presenza è fondamentale anche in ambito materno infantile: ci sono dottori, chirurghi e infermieri che forniscono il servizio alle madri che hanno bisogno di un intervento chirurgico che, prima dell’apertura dell’ospedale dovevano percorrere fino a 250 km per avere assistenza.

La costruzione dell’ospedale, come testimonia il sindaco di Sheraro, Dagnew Wuretta, ha cambiato l’attitudine delle persone e ha attivato una serie di possibilità imprenditoriali che vanno dalla pulizia delle stanze e dei reparti, all’implemento dei trasporti da e verso l’ospedale.

La comunità si è resa conto dell’importanza della presenza del Maiani Hospital e contribuisce attivamente al suo funzionamento. Un cambiamento molto importante se si considera che la sussistenza della popolazione è a malapena garantita dall’agricoltura e l’allevamento di piccoli animali, e il livello di istruzione è molto basso.

Il governo inoltre sta portando avanti una campagna contro i parti in casa perché uno dei suoi obiettivi principali è abbattere il numero della mortalità materno infantile. La politica degli Health Center è di accogliere la donna al momento del parto, assisterla per qualche ora e rimandarla a casa; in caso di complicazioni è molto difficile raggiungere in tempo un ospedale, soprattutto dalle zone periferiche.

Nell’ospedale di Sheraro, l’anno scorso, i parti sono stati circa 600, quest’anno circa 700 e in questo lasso di tempo cinque madri sono decedute. Due di esse avevano partorito in ospedale, per una ci sono state complicanze immunologiche, un’altra è arrivata in ospedale troppo tardi e l’intervento in sala operatoria è stato tardivo. Altre donne sono decedute per una inadeguata assistenza del personale dell’Health Center durante il travaglio e, arrivate tardi in ospedale, non è stato possibile aiutarle. Tutto sommato il tasso di mortalità materna al Maiani Hospital non è elevato, l’obiettivo è ovviamente quello di portarlo a zero. Non è lo stesso per i bambini che, soprattutto a causa di infezioni o disturbi congeniti, muoiono ancora in numero elevato.

Proprio a Sheraro è in corso un progetto che vuole ampliare il reparto materno infantile e prevede l’apertura del reparto di pediatria, con nuove apparecchiature. Anche per i bambini che si presentano con patologie sarà possibile offrire una cura senza doverli trasportare per centinaia di chilometri in un altro ospedale dove non è detto ci sia posto e medici a disposizione.

Anche dal punto di vista organizzativo nel reparto maternità si sta mettendo a punto un nuovo modello lavorativo: la compilazione sistematica di un registro dati che riguarda le nascite e le storie dei parti. È un documento importante che finora manca non solo in Etiopia ma in tutta l’Africa, e che permetterebbe di intraprendere una modalità di studio, partendo dalle cause della morte, per portare a una migliore assistenza. Dice Lavinia Incocciati: «Se da nessuna parte è riportata la causa della morte della donna o del bambino, la morte è stata vana».

Per le donne del Tigray, come per quelle di tutta l’Africa, la vita non è facile. Sono loro i principali motori della società, che portano avanti la famiglia e la vita delle comunità; fortunatamente il Paese sta investendo su di loro e la loro scolarizzazione e anche dal punto dell’assistenza medica possono cominciare a fare affidamento su alcune agevolazioni. Per esempio a Sheraro pronto soccorso e maternità sono servizi gratuiti, a carico del Maiani Hospital.

Avere un ospedale funzionante e attrezzato è una garanzia per la vita e la salute delle persone.

Tra i 245.000 euro che l’Iismas ha chiesto e ottenuto dall’Otto per Mille valdese, 9.800 sono stati destinati alla costruzione di un reparto provvisorio per l’assistenza medica di base. L’edificio è quasi ultimato e avrà l’importante funzione di day e night hospital, sezione che all’ospedale manca ancora. Ce lo presenta Carmen Bertolazzi.

EMMANUEL

L’attività dell’ospedale a volte travalica le mura e il tempo del ricovero. Ci sono casi che richiedono, oltre all’intervento medico, anche la vicinanza umana di fratelli e sorelle. È il caso di Emmanuel, un bambino di 4,02 kg, nato il 18 agosto del 2015. Ha due sorelle di tre e cinque anni e la mamma aveva 25 anni quando è nato. Era arrivata in ospedale per una complicanza nel travaglio, mandata dall’Health Center di un villaggio a circa 20 km da Sheraro, una strada accidentata e sterrata, raggiungibile guidando per circa trenta minuti. In ospedale è stata portata in sala operatoria per effettuare il cesareo e lo staff ha fatto tutto il possibile per salvarla ma, a causa di un disordine coagulativo e atonia uterina, è deceduta.

Il padre non avrebbe saputo come svezzarlo e così lo staff dell’ospedale e l’Iismas hanno deciso di aiutare la famiglia fornendo al bambino latte in polvere, acqua, vestiti e biberon per i primi sei mesi. In più mensilmente lo staff dell’ospedale (un infermiere, l’infermiere pediatrico e il direttore o il vice direttore) va al villaggio da dove la mamma di Emmanuel era venuta per partorire, per controllare lo stato di salute del neonato. Passati sei mesi ci penserà una capretta, comprata dall’Iismas grazie a un progetto dell’Otto per Mille, a dare il latte al bambino.

In Etiopia, nel Tigray, a Sheraro le persone continuano a sorridere e ad accogliere chi vuole aiutarli. I bambini continuano a nascere nonostante la condizione di estrema povertà, le persone continuano a guarire nonostante la scarsità di farmaci.

Smettere di pensare e cominciare a fare. È questo che probabilmente può davvero cambiare le cose in posti chiamati low-income countries, ovvero paesi impoveriti dal nord del mondo. L’impegno va nella direzione di condividere un percorso scientifico e clinico, oltre che umano, per fare in modo che un giorno l’Etiopia non abbia più bisogno di aiuto.

Si può fare di più? Si può fare meglio? Sono le domande più frequenti quando, lontani da casa, ci si sente un po’ dimenticati anche dalla proprie istituzioni e ci si interroga se si stia davvero facendo qualcosa di utile.

La risposta bisogna chiederla a chi è stata restituita dignità, gioia di vivere, un futuro economico e a chi è stata salvata la vita. Ma anche a chi, scappato da paesi in difficoltà come l’Eritrea e arrivato in Italia, si ricorda di Sheraro, dell’ospedale dove, durante il lungo viaggio verso l’Europa, è stato curato.

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