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Un’idea per
cambiare il mondo

Piccole imprese crescono a Douala V

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DOUALA
CAMEROUN

La città di Douala è divisa in 6 comuni urbani, o arondissement, che contengono circa 120 quartieri. Quasi tre milioni di abitanti, con un tasso di disoccupazione, soprattutto tra i giovani, molto alto. La forza lavoro non utilizzata non solo non contribuisce alla crescita del paese, ma genera evidenti problemi sociali, la perdita di energie e alimenta la necessità di emigrare. Chi non lavora non paga le tasse, non può aiutare la propria famiglia, spesso numerosa, non può accedere ai servizi di base e non può curarsi, in un sistema sanitario esclusivamente a pagamento.

Interventi di tipo economico, mirati o strutturali, che arrivino dallo Stato o da aiuti esterni, potrebbero aiutare a uscire da questa situazione di empasse: è quello che ci viene subito in mente. Ma ciò non è sufficiente e, pur essendo il denaro un elemento importante, non è la chiave di questo problema. Ce lo insegna la letteratura, la cinematografia, la Storia: il cambiamento non nasce dal nulla. Quando l’umanità vuole migliorare, svilupparsi, evolvere non può aspettare una crescita naturale, come quella di un filo d’erba: ha bisogno di una scintilla creativa, che ogni giorno darà senso e sostanza alle proprie azioni. La chiave è un’idea.

Nel comune di Douala V, uno dei più grandi e densamente popolati, la scintilla creativa è stata il potenziamento delle idee dei giovani camerunesi e la loro trasformazione in progetti sostenibili e concreti. Questo perché le idee migliori, senza struttura rischiano di rimanere tali, e non porteranno efficacemente a nessuna soluzione.

La Società Geografica Italiana, insieme al Gruppo Europeo di Biotecnologie del parco Scientifico dell’Università Tor Vergata di Roma (Eurobiopark) e all’amministrazione di Douala V, hanno ideato un piccolo incubatore d’impresa che permettesse ai cittadini camerunesi di apprendere e potenziare delle conoscenze utili a trasformare le proprie idee in pratica. Situato in città, l’incubatore raccoglie potenziali start-up di giovani, informati del progetto soprattutto attraverso l’università: grazie a una formazione mirata sulla metodologia, sulla gestione aziendale e delle risorse finanziarie e grazie a prove pratiche, il progetto vuole sviluppare nei giovani uno sguardo imprenditoriale che abbia concrete ricadute sul sociale.

Il lavoro consente ai giovani di pagare le tasse: questo permette loro di pretendere in cambio diritti e servizi dallo Stato, oltre al fatto che, inevitabilmente, essi si sentano parte di un sistema. In altre parole che si percepiscano come cittadini e non come utilizzatori del paese. In questo modo le energie e le progettualità delle giovani generazioni possono essere investite nel proprio contesto di vita e non essere messe da parte, magari per la necessità di cercare fortuna altrove. Il progetto dell’incubatore si configura dunque anche come strumento di lotta all’emigrazione e al brain drain, creando posti di lavoro e cambiando realmente la vita alle persone.

Molti studenti africani, circa 400, entrano ogni anno nelle università italiane, studiano e si formano: spesso però, non ritornano nel loro paese d’origine. Una fuga di cervelli drammatica per i paesi africani. Si stima che il 90% degli studenti stranieri in Europa non faccia ritorno nel proprio paese, chi ritorna in patria senza qualcosa di concreto in mano rischia di essere escluso dalle proprie reti sociali, e anche chi resta in Italia rischia di non sentirsi cittadino di nessuno luogo.

Un altro intento dell’incubatore, dunque, è quello di far tornare in Africa i giovani in forma protetta, attirandoli nuovamente verso il proprio paese e investendo in formazione e competenze. Sempre più imprenditori italiani delocalizzano attività in Cameroun, spinti anche dalla crisi economica: in questo processo garantire professionisti competenti sul campo è indispensabile, e l’incubatore lavora per formarli. L’emigrazione clandestina è un fenomeno diffuso in Cameroun: molti giovani scelgono di prendere la strada del Sahara e la possibilità di morire in quel viaggio è sempre presente.

La strada tracciata è stata dunque quella di dare sostegno alle idee dei giovani, offrendo formazione, uno spazio di coworking (tuttora in costruzione) e la possibilità di creare reti locali e con partner internazionali. «Pensavo di aver bisogno di soldi, invece avevo bisogno di un’idea» dice uno dei ragazzi che ha seguito il percorso dell’incubatore. Nel primo anno, 2014-2015, i giovani che si sono interessati al progetto sono stati circa 200, trenta stanno perfezionando le loro idee di start-up, mentre una decina sono già attivi. «La Chiesa Valdese ha capito l’importanza della struttura e delle ricadute nell’ambito sociale» dice il Prof. Vittorio Colizzi, Direttore generale dell’incubatore e Presidente di Eurobiopark. A differenza di altre esperienze, questo incubatore non è settoriale, ma riesce a intervenire in campi completamente diversi: i progetti già attivi riguardano l’edilizia, l’industria agroalimentare, la sanità, l’editoria, il settore pubblicitario, quello ambientale e quello della moda.

Judith e Ivan sono due giovani produttori di pollame. A dir la verità fanno nascere e producono pulcini per poi inserirli sul mercato. La vendita dei polli in Cameroun è fondamentale per l’economia, poiché la loro carne è una delle più consumate: «senza tabù», come dice Ivan, poiché tutte le religioni presenti nel paese (cristiani, musulmani e animisti) la mangiano volentieri.

Entrambi hanno frequentato l’università e credono che l’alimentazione sia centrale nello sviluppo del paese: per Judith e Ivan, però, lavorare in un settore dal quale dipendono il benessere e la salute dei consumatori, non può prescindere dalla qualità. Purtroppo è difficile seguire il pollame nella filiera di produzione: i polli arrivano congelati in grandi container, provenienti da paesi vicini o da grandi industrie europee e la possibilità di capirne la provenienza e l’alimentazione è davvero remota.

In Cameroun la domanda di pulcini è tre volte superiore rispetto all’offerta, anche perché il tasso di mortalità è molto alto: spesso vengono utilizzati prodotti chimici per allontanare le malattie, ma questo rende gli animali ancora più delicati. Lavorando in questo settore, la frustrazione non è poca: Judith racconta di interi allevamenti ammalati, per cui non c’è più niente da fare se non ricominciare da zero. Ma la ricerca della qualità è una battaglia quotidiana, e i due allevatori vogliono arrivare a controllare la produzione secondo i loro standard di naturalezza. Senza additivi i pulcini che diventeranno polli saranno più sani e buoni da mangiare.

L’idea di creare una filiera produttiva di pulcini biologici e di qualità è nata nel 2007, ma è solo nel 2014 che è avvenuto l’incontro con l’incubatore d’impresa. «Il nostro lavoro prima e dopo l’incubatore non è neanche comparabile», dice Judith. Non era possibile inserirsi nella filiera senza essere preparati e senza sapere da dove arrivassero le uova, per avere la certezza di qualità.

Oggi la piccola start-up offre lavoro a 15 giovani, vendendo pollame bio e a km0, rafforzando l’economia locale. L’unione di questi fattori fa sì che i pulcini siano anche più economici, rispetto ai prezzi esorbitanti che hanno normalmente sul mercato. Per Judith e Ivan quella del prezzo è una sfida fondamentale: offrire qualità e aiutare i camerunesi direttamente nelle loro tasche.

LA MODA SENZA CONFINI

Alvine è laureata in diritto, ma appassionata alla moda da diversi anni. Ha studiato in Italia, ma da sempre sogna di tornare in Cameroun. Nel Belpaese, famoso anche per grandi marche e stilisti, Alvine ha sviluppato la passione per l’abbigliamento unendo il proprio “gusto africano” con l’esperienza italiana nel campo della moda. La sua idea è sempre stata precisa: tornare in Cameroun con le competenze acquisite e mettere in piedi un atelier di vestiti pret-a-porter. «Qui in Africa centrale non c’è una filiera di produzione, e non è possibile competere con i giganti dell’industria tessile. Ma possiamo competere sul gusto e sulla qualità» dice sicura di sé e dell’esperienza che ha sulle spalle. Ha ben chiaro che l’Africa è in divenire e che le sfide sono enormi, ma che lavorare sulla qualità paga sempre.

Il lavoro è un obiettivo chiaro, che il settore tessile può assicurare in Cameroun, se ben organizzato. Alvine racconta che la cultura africana e quella europea hanno dovuto incontrarsi anche in relazione alle taglie: se in Cameroun è normale e semplice modificare da una sarta un abito appena acquistato, in Italia è sempre meno comune e la richiesta dei clienti è di avere già un prodotto pronto. Il primo passo è stato dunque creare delle collezioni in cui fossero presenti tutte le taglie. Un pret-a-porter creato con materiali naturali come cotone, lino e seta. «Se si vuole entrare nel mercato, occorre mettersi al passo» dice Alvine, che punta in alto chiamando la sua start-up Maison, una casa di produzione vera e propria, non una semplice bottega.

Dopo il ritorno dall’Italia, Alvine ha creato un’atelier a Douala, cercando le particolarità del tessuto tradizionale Bogolan (una sorta di serigrafia naturale) in Mali, e riportando poi i propri prodotti nelle Marche. L’incubatore ha permesso di focalizzare la propria offerta e le energie a disposizione: in un fortunato ordine con una grande azienda italiana, i problemi della filiera africana sono emersi con chiarezza: una grande richiesta di migliaia di capi ha avuto rallentamenti per la differenza di strutture. Ma con una nuova strategia la strada della Maison può consolidarsi sempre più. L’obiettivo è anche far appassionare i giovani, in particolare le ragazze, alla moda interculturale e non solo alla sartoria: un cambiamento di orizzonte che può combattere l’emigrazione dal paese.

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